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Intervista al Dr. Daniele Berardi PhD, Cardiologo ambulatoriale presso ASL Roma 3
Se parlo di “paziente fragile” a chi pensa?
Il paziente fragile, nel senso più classico del termine, è tipicamente il paziente anziano, ultraottantenne con poli-patologia e poli-trattamento farmacologico, anche se la fragilità non necessariamente corrisponde al dato anagrafico. Nella realtà clinica, infatti, incontriamo pazienti fragili che non sono anziani, come ad esempio pazienti neoplastici terminali, oppure pazienti cardiopatici con scompenso cardiaco severo in stadio terminale. Questi casi non sono infrequenti.
In genere la fragilità nella mia branca clinica si individua nei follow up di pazienti cronici, spesso allettati o semi-allettati, comunque non deambulanti autonomamente e che necessitano di trattamenti e cure domiciliari o in strutture dedicate come Hospice e RSA. In genere la fragilità si rileva e apprezza quindi nella gestione in cronico del paziente.
A suo parere è un tema conosciuto/compreso da medici e istituzioni sanitarie?
Il tema è conosciuto e compreso, in maniera crescente più passa il tempo anche a fronte del dato epidemiologico: l’età media della popolazione aumenta sempre di più, pertanto incrementa la popolazione anziana e quindi di conseguenza aumenta la quota parte di anziani che identifichiamo come fragili. Inoltre, noi medici siamo sollecitati a essere attenti: i nostri corsi di formazione ECM (Educazione Continua in Medicina) sono sempre più spesso dedicati al trattamento e alla gestione del paziente fragile. Questo è vero non solo per i medici, ma più precisamente per tutti gli operatori sanitari, considerando che i professionisti che maggiormente si interfacciano con i pazienti fragili e che costruiscono rapporti clinici più stretti sono gli infermieri (sia di struttura che quelli che fanno attività domiciliare) e gli operatori socio-sanitari (OSS).
Quali sono le attuali criticità a suo parere nella presa in carico del paziente fragile?
Nella gestione pubblica, parlando di Servizio Sanitario Nazionale e Servizio Sanitario Regionale la criticità maggiore è che le risorse umane dedicate all’assistenza domiciliare non sono sufficienti a fare fronte in maniera adeguata a tutti i pazienti fragili presenti sul territorio. Questi pazienti hanno necessità di rivalutazioni specialistiche più frequenti, cosa che non si riesce spesso a realizzare, anche considerando che le prestazioni diagnostiche strumentali domiciliari sono poche (per esempio a domicilio si può fare un elettrocardiogramma, ma il Servizio Sanitario non prevede prestazioni più complesse come ecografie cardiache o holter cardiaci). Il problema di fondo è che le liste di attesa domiciliari sono più lunghe di quelle ambulatoriali e il numero di medici non è sufficiente a garantire tutte le prestazioni necessarie e nei tempi appropriati.
Chi è o dovrebbe essere il riferimento di questo paziente?
Dal punto di vista strettamente “sociale”, parlando di gestione domiciliare, ci deve essere una figura “caregiver”, che generalmente è un familiare o comunque una persona vicina al paziente, che gestisce la quotidianità e il vissuto sanitario.
Da un punto di vista medico e amministrativo, chi tiene le fila del discorso nelle ASL è comunque (o dovrebbe essere) il Medico di Medicina Generale (MMG), perché nei percorsi interni alle ASL il cosiddetto CAD (Centro Assistenza Domiciliare) (il CAD laziale è noto in altre Regioni come ADI, Assistenza Domiciliare Integrata ndr), è una forma di assistenza domiciliare che solamente l’MMG può attivare (o al limite l’ospedale dopo il ricovero in acuto) indicando degli accessi programmati al paziente. Ci sono poi situazioni ultra-specialistiche (come pazienti oncologici o con situazioni cardiologiche estremamente severe) in cui necessariamente il riferimento deve essere lo specialista, ma sempre in collaborazione con il MMG.
La criticità è che manca un dialogo diretto tra MMG e specialista, ossia manca una modalità che permetta una collaborazione diretta e una conseguente continuità assistenziale. Non è una mancanza di volontà degli operatori sanitari, ma di mezzi tecnici.
Come si può superare la frammentarietà di presa in carico tipica dei percorsi di cura di questi pazienti?
Ci sono due possibilità:
La prima visita post-attivazione del CAD dovrebbe essere fatta congiuntamente dal MMG e dallo specialista prioritario, in relazione alla patologia preponderante del paziente.
Avere una cartella informatizzata del paziente. Purtroppo, la gestione informatizzata non è nemmeno presente in tutte le ASL. Questo è un problema sostanziale. Sarebbe necessario dotare della tecnologia necessaria sia gli specialisti che i MMG, connettendoli a un sistema integrato per poter vedere cosa fa l’uno e cosa fa l’altro, il che sarebbe importante soprattutto per la gestione farmacologica del paziente. Questi sono pazienti in poli-trattamento e a volte non è semplice ricostruire la terapia che il paziente sta seguendo, soprattutto se durante la visita non è presente il caregiver. In queste situazioni, l’unica possibilità è contattare telefonicamente il MMG che a volte non è purtroppo nelle condizioni di poter dialogare con lo specialista in quanto, nello stesso momento, sta visitando in studio e pertanto non riesce, per impossibilità materiale, a confrontarsi con lo specialista sulla ricostruzione della terapia farmacologica piuttosto che della storia clinica del paziente. Di fatto, se lo specialista domiciliare non ha queste informazioni, non riesce a visitare efficacemente il paziente, che ha solo fatto un giro di boa.
Quali soluzioni immagina per la gestione della presa in carico appropriata del paziente fragile?
Si parla tanto di telemedicina, medicina a distanza, e-medicina… però, mi ripeto, bisognerebbe dotare il MMG e lo specialista della corretta tecnologia.
Sicuramente la telemedicina potrebbe fornire un valido supporto: proviamo solo a immaginare un MMG che fa un elettrocardiogramma a un paziente che sta visitando per un sospetto infarto. Se potesse collegarsi con un cardiologo e avere un parere in diretta sull’ECG, l’eventuale diagnosi potrebbe essere più rapida e più precisa, risolvendo molti problemi al paziente.
Sono necessari studi e/o iniziative per condividere con la comunità scientifica la definizione di “paziente fragile” e i suoi bisogni?
La letteratura, soprattutto quella geriatrica, è in realtà piuttosto ricca, con informazioni sia mediche che infermieristiche. Credo che la conoscenza da parte degli operatori sanitaria sia sufficiente, soprattutto per i professionisti che più spesso sono a contatto con il paziente fragile.
Purtroppo, questa letteratura, pur sufficiente a formare e informare i professionisti, non è sufficiente a portare i bisogni del paziente fragile alle istituzioni, che mediamente non seguono adeguatamente le necessità indicate della classe medica: non c’è un numero di medici adeguato a coprire il territorio, e l’aumento del numero dei medici sarebbe l’unica modalità per abbattere le liste di attesa territoriali. Questo perché la gestione amministrativa si occupa quasi esclusivamente dell’equilibrio economico delle ASL, in completa discordanza con le necessità cliniche dei pazienti di visite più frequenti.
Un’alleanza tra classe medica e Associazioni Pazienti potrebbe essere utile a portare queste istanze alle Istituzioni?
La compartecipazione con le Associazioni Pazienti può sicuramente essere utile, poiché mostra che il problema è reale e non una semplice esigenza della classe medica. Si tratta della testimonianza diretta di una criticità.
Sicuramente da un punto di vista pratico sarebbe invece importante ascoltare un po’ di più i tecnici e invitare ai tavoli regionali i MMG e gli specialisti ambulatoriali/ospedalieri e i loro rappresentanti. Sarebbe importante guardare la gestione di bilancio sulla base dei suggerimenti di chi sta ogni giorno sul territorio. Il problema chiave è la troppa distanza tra chi prende le decisioni a livello regionale, per non dire nazionale, e chi invece vive il territorio.
C’è qualcosa che vuole aggiungere sul tema del paziente fragile?
Un argomento, nella mia opinione poco discusso e che invece ritengo importante sul tema del paziente fragile, è la necessità di potenziare sul territorio l’assistenza al paziente psichiatrico. Come cardiologo io visito questi pazienti per la necessità di controlli cardiologici causati dalla terapia farmacologica che assumono. La situazione purtroppo è quella di una difficoltà a gestire adeguatamente questi pazienti, le strutture necessarie sono davvero molto carenti in termini di rapporto operatori/pazienti, fatte salve alcune strutture private convenzionate.
Il paziente psichiatrico, alle caratteristiche di fragilità strettamente cliniche, come la presenza di un poli-trattamento e una malattia che disabilita la persona (si pensi a un paziente schizofrenico che perde il contatto con la realtà) aggiunge in alcuni casi l’imprevedibilità comportamentale dovuta alla malattia in sé. Una gestione meno approssimativa di questi pazienti, in termini di tempistiche e quantità di risorse umane utilizzate, sarebbe sicuramente auspicabile.
Va poi considerato che se i medici lavorano in maniera così difficoltosa, non lavorano in maniera tranquilla, e lo stato d’ansia aumenta l’errore, che poi paga il paziente. Aggiungendo a questo una questione di difficile recupero fisico dovuta alla turnazione, la situazione diventa davvero faticosa, rendendo difficile il miglioramento della gestione del paziente.
In conclusione, il tema della fragilità del paziente è e deve essere sempre più tenuto presente nella organizzazione del nostro Servizio Sanitario, in modo da permettere agli operatori di prendere realmente in carico questi pazienti e le loro famiglie, sul lato assistenziale clinico ed umano.