Intervista al Prof. Fabio Angeli

Intervista al Prof. Fabio Angeli

Professore di II fascia - Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università degli Studi dell’Insubria -Varese

Primario dell’UO. di Medicina Generale - Istituti Clinici Scientifici Maugeri, IRCCS di Tradate - Varese

Qual è stata la molla che l’ha spinta a intraprendere una carriera nella ricerca?

Questa domanda mi è stata posta più volte durante la mia carriera. Soprattutto da giovanissimi colleghi che si meravigliavano del tempo che riuscivo a dedicare alla ricerca nonostante i carichi di lavoro e le estenuanti attività di reparto.

La risposta nel corso degli anni non è mai mutata: mi aspettavo che la ricerca clinica migliorasse il mio modo di essere medico. In che modo? Implementando in modo significativo la qualità della mia attività e la possibilità di rispondere in modo adeguato alle necessità dei miei pazienti.

Fortunatamente i miei sforzi e sacrifici sono stati ampiamente ripagati. Se un giorno non avessi più la possibilità di affiancare la ricerca alle mie attività di clinico, sicuramente cambierei lavoro.

Quali i motivi per cui ha deciso di concentrare il suo lavoro scientifico sul paziente fragile?

La risposta viene da lontano e come sempre da ciò che si sperimenta durante la propria attività lavorativa.

Occupandomi della diagnosi e terapia delle sindromi coronariche acute e dello scompenso cardiaco ho avuto modo di notare quanto sia cambiata nel corso degli anni la tipologia dei miei pazienti.

Ora sono più anziani, con tante comorbidità, con la necessità di numerose ospedalizzazioni per curare le proprie patologie e con una conseguente e progressiva riduzione della qualità di vita sia dal punto di vista relazionale che sociale.

Penso che questa sia la migliore definizione di “fragilità”.

Nel corso degli anni è aumentata la quota dei pazienti “fragili” che ho avuto in cura e mi sono accorto che le attenzioni, la cultura in questo ambito e le opzioni terapeutiche a disposizione diventano sempre più insufficienti.

Ricordo con soddisfazione gli studi condotti per identificare tra i pazienti anziani e “fragili” con infarto del miocardio quelli che più di tutti potevano beneficiare di un trattamento molto aggressivo (con esami invasivi precoci) per contenere il danno a livello cardiaco. L’applicazione dei risultati delle mie ricerche in campo clinico mi ha permesso di migliorare non solo la sopravvivenza dei miei pazienti ma anche la loro qualità di vita.

Del tutto analoga è l’esperienza nella gestione ambulatoriale dei pazienti cronici affetti da patologie cardiovascolari come l’ipertensione arteriosa; questa patologia, infatti, è definita “killer silenzioso”, poichè crea danni gravissimi al nostro organismo (infarto, ictus, scompenso cardiaco ed insufficienza renale) in assenza di sintomi particolari. Questo la trasforma in una delle principali cause a lungo termine di “fragilità” e merita particolare attenzione.

Gli studi clinici effettuati in questa area di ricerca mi hanno permesso di ottimizzare la diagnosi e la cura dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa con conseguenti ricadute positive sulla prevenzione di eventi invalidanti.

Quale sarà secondo lei il beneficio che la sua ricerca potrà portare ai pazienti fragili?

La speranza è quella di migliorare le cure per cercare di prevenire e contenere la “fragilità”. In particolare ci si aspetta che una sorveglianza mirata di patologie invalidanti come l’ipertensione arteriosa e la fibrillazione atriale e l’utilizzo di protocolli diagnostici e terapeutici personalizzati possano frenare il rapido deterioramento dei pazienti “fragili”.

Qual è, nella sua opinione, il ruolo delle Società Scientifiche nell’indirizzo terapeutico del paziente fragile, e come mai a volte si osservano differenze marcate tra diverse Società Scientifiche della stessa area terapeutica?

Il ruolo delle Società Scientifiche che in un certo modo regolano la nostra attività tramite raccomandazioni e linee guida è fondamentale. Dovrebbero essere fautrici di messaggi chiari e pratici per la gestione dei pazienti “fragili”.

Ad oggi, però, non esistono vere e proprie linee di indirizzo che possano guidare noi medici nella gestione di questa tipologia di pazienti. Lo sforzo dei ricercatori dovrebbe essere proprio quello di accumulare dati e studi clinici per indirizzare un maggior interesse a queste condizioni.

Da sottolineare, poi, che le raccomandazioni fornite da diverse Società Scientifiche che operano all’interno di una stessa area medico-terapeutica possono essere a volte in conflitto tra loro.

Basti pensare al trattamento dell’ipertensione arteriosa nell’anziano; da un lato le linee guida americane ci spronano ad essere molto aggressivi nel ridurre i valori di pressione per diminuire in modo significativo il rischio di patologie invalidanti come l’ictus; dall’altro, quelle europee risultano molto meno chiare nei loro consigli, raccomandando di non ridurre troppo i valori di pressione sanguigna in soggetti “fragili”, esponendoli quindi ad un maggior rischio di sviluppare eventi cardiovascolari.

Mai come ora si sente la necessità di raccomandazioni univoche e semplici da seguire in questo contesto.

Parlando di finanziamento alla ricerca scientifica, i fondi che ha a disposizione quanto e in che modo sono sufficienti per i suoi progetti di ricerca? Quali sono le possibili soluzioni alla mancanza di fondi?

Studiare le condizioni legate alla “fragilità” richiede ingenti fondi. Soprattutto perchè sono tantissime le cause che concorrono a determinare questa condizione.

Sotto questo punto di vista non è da sottovalutare il ruolo che potrebbe avere anche l’Industria. In questi ultimi anni le case farmaceutiche hanno posto molta attenzione alla cura dei pazienti “fragili”.

A mio modo di vedere, si dovrebbero sensibilizzare le aziende farmaceutiche ad investire fondi per sovvenzionare protocolli di ricerca mirati ad ottimizzare i percorsi e le strategie terapeutiche dei pazienti “fragili”. In altre parole, spostare l’attenzione dall’utilizzo di un singolo farmaco per una precisa patologia al suo utilizzo in protocolli più complessi per la cura contemporanea di molteplici comorbidità.

Per quanto riguarda la mia attività, mi ritengo estremamente fortunato perchè la Fondazione Salvatore Maugeri sta investendo ingenti risorse in questo campo e ha fatto diventare la cura dei pazienti “fragili” una vera e propria missione.

Nella sua opinione, clinici, operatori sanitari ed istituzioni quanto sono consapevoli delle criticità legate alla gestione della fragilità clinica? Per valutare l’impatto socio-economico della fragilità quali sono gli ulteriori studi da svolgere?

Purtroppo la risposta non è incoraggiante. Come sottolineato in precedenza, si nota poca cultura e poca consapevolezza in questo ambito.

Le malattie croniche che spesso sono causa di “fragilità” ricevono ancora poca attenzione, non solo da parte delle Istituzioni ma anche da noi medici.

Sono ancora scarse le risorse per ottimizzare la diagnosi e la cura di patologie croniche causa di “fragilità”; ma sono ancora più scarse le possibilità di curare i nostri pazienti “fragili” magari direttamente a domicilio, evitandogli così continue ospedalizzazioni e garantendogli dignità e migliore qualità di vita.

Nel mio caso, continuo a sottolinearlo, mi sento un privilegiato; la Fondazione Salvatore Maugeri per cui lavoro è molto sensibile a questa problematica e sta mettendo a disposizione fondi, attenzioni e capacità per curare al meglio i nostri pazienti “fragili”.

Gli studi che stiamo conducendo sicuramente ci forniranno anche un preciso spaccato della nostra realtà, confermando i costi sanitari elevatissimi che dobbiamo sostenere per curare i nostri pazienti “fragili”. Sono sicuro che ci forniranno anche risposte alle tantissime domande che ogni giorno noi medici ci poniamo nel gestire le condizioni di “fragilità”.

Anche se la fragilità è condizione che appartiene all’essere umano, non possiamo dimenticarcene o trascurarla.