Intervista a Marco Rasconi, Presidente UILDM, Unione Italiana Lotta alle Distrofie Muscolari

Intervista a Marco Rasconi, Presidente UILDM, Unione Italiana Lotta alle Distrofie Muscolari

Parliamo di paziente esperto: chi è e qual è il suo ruolo nel (proprio) percorso di cura?

Oggi fortunatamente possiamo dire che il paziente esperto esiste. Si tratta di un paziente che conosce la patologia da cui è affetto, si informa e parla con i propri medici referenti. È un paziente consapevole, che può prendere decisioni sulla propria qualità di vita, anche dal punto di vista sanitario. È un paziente in grado di decidere consapevolmente sul proprio percorso di cura, attraverso un confronto con l’esperto, con il proprio medico specialista di riferimento, trovando strade alternative per ottenere una migliore qualità della vita. Oggi questi pazienti hanno quest’opportunità ed è giusto quindi che questa autodeterminazione venga utilizzata. È chiaro che la consapevolezza, la conoscenza e la fiducia nell’esperto sono gli ingredienti fondamentali. Dall’altra parte è necessario avere un medico esperto capace di ascoltare il paziente, conscio della sua consapevolezza, pertanto diventa fondamentale che il rapporto tra il paziente e la persona che lo cura, sia bidirezionale.

Quanto e in che modo le istituzioni ascoltano le istanze portate dai pazienti esperti?

Le Istituzioni sanitarie hanno fatto grandi passi avanti. I medici che hanno in cura pazienti cronici sono ormai consapevoli che la cronicità non comporta più patologie di rapida evoluzione, ma un allungamento della speranza di vita, per cui dobbiamo permettere alle persone di vivere e vivere bene. Facendo un esempio: fino a relativamente poco tempo fa, la Distrofia muscolare di Duchenne aveva una speranza di vita di 20 anni e l’obiettivo era appunto prolungarla. Oggi, le persone con Distrofia di Duchenne vivono fino a 50 anni, possono frequentare l’università, lavorare, costruirsi una famiglia e tutto ciò deve essere preso in considerazione. Oggi mantenere la persona in vita non è più il solo obiettivo, ma un bisogno sanitario in equilibrio con quello sociale, il cui fine è la migliore qualità di vita.

Le Istituzioni in generale sono invece un pochino indietro dal punto di vista culturale, ma dobbiamo continuare ad insistere, in modo che la persona con disabilità e tutti i pazienti in generale vengano visti come persone in grado di essere protagoniste anche del proprio percorso di cura, senza subirlo passivamente. Non siamo solo attori passivi, ma abbiamo bisogno di ricevere ascolto, di poter ragionare insieme. C’è poi la necessità di fare formazione sui pazienti, affinché essi siano resi più consapevoli, ruolo oggi destinato alle Associazioni. Il mondo associativo, “concentrando” le persone fragili, favorisce un confronto tra esperienze diverse dei pazienti, i quali, condividendo una situazione comune, possono aumentare la propria consapevolezza. È giusto però che questa consapevolezza sia presente anche nei medici, i quali dovranno comunicare al meglio ai pazienti i trattamenti farmacologici da seguire, indicando loro sia i benefici effettivi, che il possibile impatto sui costi, sul tempo e la fatica che gravano sul paziente.

Il ruolo associativo è raccontare delle possibilità: finché avremo in mente che una persona con disabilità subisce passivamente il percorso di cura senza esprimere una sua opinione, allora non ci staccheremo mai dal concetto che il medico sa cosa è meglio per il suo paziente. Siamo consapevoli ovviamente che l’ambiente medico scientifico ha delle competenze sui temi scientifici, da cui non si può prescindere. Per questo le associazioni hanno l’obbligo di “raccontare” al mondo medico-scientifico ciò che le persone con disabilità vogliono, in modo da trovare il giusto equilibrio tra il percorso sanitario, che spesso impone limitazioni stringenti e il percorso sociale, che spesso il paziente ritiene più importante. Le due controparti (medico-scientifica e sociale) devono essere consapevoli dell’esistenza e dell’importanza una dell’altra. Le associazioni pertanto fanno da punto di congiunzione tra le controparti, sollecitando il mondo medico-scientifico a studiare strade e percorsi terapeutici sempre più compatibili con il sociale e raccontare ai pazienti che prendersi cura della propria patologia, non li rende succubi di questa, ma bensì rispettosi della propria condizione clinica.

Parliamo di paziente fragile: qual è la sua definizione di fragilità?

La fragilità è una condizione molto a rischio per i pazienti, poiché poche sono le risposte. Ad oggi non tutte le regioni hanno un piano sulla cronicità e di gestione del paziente fragile, è un paziente che ancora non è adeguatamente riconosciuto e di conseguenza non opportunamente gestito nella sua totale presa in carico.

Approcciarsi alla fragilità significa pensare a favore della collettività, pur avendo inizialmente in mente il singolo paziente. Per esempio, tutto ciò che abbiamo studiato sul paziente fragile con problemi respiratori, in questo momento ci aiuta ad avere soluzioni disponibili per tutta la comunità, anche per coloro che fragili non sono. Tutto ciò non vuol dire occuparsi solo dei fragili, ma rispetto a prima c’è un’attenzione maggiore per questi pazienti, con potenziali effetti benefici per tutti. Per questo ritengo che quella di Fondazione Salvatore Maugeri sia stata una vera e propria intuizione, perché focalizzando il proprio impegno su alcune criticità proprie dei pazienti fragili produrrà ricadute positive per l’intera comunità. Chiaramente poi migliorare il modello di presa in carico del paziente fragile renderà la sanità migliore per tutti.

Quali bisogni di pazienti e caregiver non sono soddisfatti e quali soluzioni suggerisce per colmare queste lacune?

È un tema complicato. Le aspettative e i bisogni dei pazienti e dei loro caregiver sono ancora un tema aperto. Il dialogo diretto su queste tematiche, tra sistema sanitario da un lato e pazienti e caregiver dall’altro, va ancora migliorato, è chiaro che i pazienti e i loro familiari devono essere consapevoli e informati il più possibile su tutte le attività possibili. La tematica è che i bisogni dei pazienti sono molto particolari, spesso individuali e ciò rende complesso poterli soddisfare completamente e “singolarmente”. C’è inoltre da considerare che la persona fragile ha spesso bisogno di un’assistenza a 360°, dobbiamo essere consapevoli che non si può prendere in carico solo il paziente, ma è necessario prendere in carico tutta la sua famiglia e questo a livello sanitario ancora non è completamente compreso ed attuato. Si stanno facendo enormi passi avanti, ma è necessario continuare ancora a lavorare su questo fronte.

Tra gli attori del percorso di cura del paziente fragile, chi ritiene debba essere il punto di riferimento?

A livello sanitario, servono team multidisciplinari, come quelli che abbiamo sviluppato nei nostri centri Nemo, team che siano in grado di fare sintesi tra i diversi specialisti del paziente, permettendo di gestire il problema all’interno dell’ospedale. Fino a poco tempo fa questo ruolo di raccordo tra le diverse visite specialistiche era demandato alle famiglie ma fortunatamente da questo punto di vista le cose sono notevolmente migliorate.Inoltre, la famiglia assume un ruolo fondamentale a livello sociale, insieme alla figura dell’assistente sociale.

Non da ultimo il paziente va posto al centro dei due mondi menzionati, quello medico e quello sociale, per un migliore coordinamento dei due aspetti. Laddove esistono realtà che sostengano le famiglie, le stesse possono seguire il paziente nel suo percorso, ma tutto ciò deve essere fatto con consapevolezza. Da un lato quindi l’aspetto sanitario deve dare risposte concrete a un bisogno, ascoltando la persona, dall’altro la stessa cosa deve essere fatta a livello sociale, poi la persona può prendere le proprie decisioni, delineando il proprio percorso.  L’associazione, pertanto, è un facilitatore di questo processo.

In conclusione, anche il Medico di Medicina Generale è un attore fondamentale dell’equipe multidisciplinare. Va formato sulla patologia del paziente fragile, consapevole di dover collaborare con gli specialisti, e coinvolto nel percorso. Infatti, per una più completa presa in carico del paziente, il MMG può trattare direttamente “a casa” del paziente alcune criticità con conseguenze estremamente positive dal punto di vista della qualità della vita del paziente, espressione quindi di un coordinamento funzionale tra ospedale e territorio.