Intervista a Franco Carnesalli, Clinical Manager Istituto Auxologico Milano

Intervista a Franco Carnesalli, Clinical Manager Istituto Auxologico Milano

Se parla di “paziente fragile” a chi pensa?

Innanzitutto, non necessariamente è un “paziente”, nel senso che non presenta in tutti i casi una o più patologie, ma ha soprattutto una minor autonomia nella vita quotidiana. Sicuramente l’età avanzata, pregresse fratture, pregresse patologie, ma ovviamente alcune patologie croniche come ipertensione, cardiopatia ischemica, BPCO o diabete “facilitano” la presenza di fragilità. Ma la fragilità va oltre lo stato fisico, c’è anche una componente sociale e psicologica. Facciamo un esempio: un anziano che abita solo, con i figli lontani, con difficoltà di deambulazione, quello per me è un soggetto fragile.

La fragilità clinica e la fragilità sociale sono pertanto due aspetti distinti ma che si possono sovrapporre. In linea di massima le patologie croniche sono caratteristiche di questi pazienti, e in essi anche piccoli eventi generalmente considerati minori, come un’influenza, una caduta, un leggero disturbo intestinale, possono avere effetti destabilizzanti su situazioni già delicate. Per questo bisogna mantenere un monitoraggio costante, per evitare questi peggioramenti repentini.

A suo parere è un tema conosciuto/compreso da medici e istituzioni sanitarie?

In Italia esiste ormai consapevolezza del tema della fragilità e dei pazienti fragili, e tale concetto viene affrontato da tutti gli operatori coinvolti, sia a livello sanitario, sia a livello sociale, sia a livello istituzionale. In Lombardia, per esempio, regione di cui posso parlare con più cognizione di causa per esperienza personale, la coscienza della fragilità è molto presente, con una buona organizzazione territoriale, ma ovviamente si può fare di più. Oltre a migliorare l’assistenza sanitaria sul territorio (Medico di Famiglia, infermiere di quartiere, servizi a domicilio (prelievi, alcuni accertamenti, terapia infusionale ecc) molti pazienti avrebbero bisogno anche di un supporto nella gestione della spesa e della casa. Si tratta di un supporto sociale, gestito quindi dai Comuni, che però sarebbe estremamente importante anche dal punto di vista sanitario, e che potrebbe contribuire ad evitare quelle ricadute, quelle destabilizzazioni, dovute a eventi considerati minori, tra cui possiamo sicuramente contare anche una cattiva alimentazione, un ambiente casalingo insalubre e la solitudine.

Quale rappresentante della filiera sanitaria ritiene possa essere il riferimento del paziente fragile?

Ad oggi, il peso ricade molto spesso su un caregiver, tendenzialmente un familiare del paziente o una badante e ciò ovviamente impone un carico di tempo e fatica non indifferente sulle famiglie e sulla società in generale, considerando anche l’aumento dell’età media della popolazione, il che implica un aumento di soggetti che hanno necessità di sostegno socio-sanitario.

Riferendomi sempre alla realtà lombarda, si può però notare che la ATS Milano fornisce una assistenza socio-sanitaria di buon livello, anche alcune strutture, che originariamente erano solo dedicate all’aspetto che possiamo definire “casa di riposo”, si sono spese offrire una assistenza di tipo ospedaliero, con reparti di riabilitazione cardiologica o ortopedica, compiti sicuramente non tipici di una casa di riposo. Hanno poi avviato anche attività ambulatoriali e servizi domiciliari. Tra queste strutture annovero sicuramente la Fondazione Maugeri. Questo servizio è sicuramente positivo e fornisce un grande aiuto al Servizio Sanitario pubblico, in un’ottica di compartecipazione pubblico-privato estremamente funzionale, in grado di sgravare di un peso anche le famiglie.

Come si può superare la frammentarietà di presa in carico tipica dei percorsi di cura di questi pazienti?

Si tratta sicuramente di una questione importante e critica, come evidenziato anche dalle vicissitudini recenti causate dal Coronavirus. Il territorio è stato trascurato: si punta molto sugli ospedali e meno sul territorio e il rapporto del medico di medicina generale (MMG) con le strutture ospedaliere e gli specialisti ricade sulle conoscenze e la volontà del singolo MMG. Ci sono coloro che conoscono tutti gli specialisti e sono proattivi, ma i contatti richiedono anche molto tempo, spesso occupato da altre incombenze burocratiche. Inoltre, è necessario che anche lo specialista sia disponibile a questo dialogo, e in alcune occasioni questa disponibilità non è completa. Questo aspetto deve essere migliorato, facilitando la collaborazione tra MMG e strutture ospedaliere.

Non vedo però, dal punto di vista organizzativo, se non parzialmente, la presa in carico totale del paziente da parte della struttura ospedaliera.  Ritengo il MMG fondamentale, perché più vicino al paziente, e con una conoscenza di più lunga data, per cui credo che la gestione globale del paziente debba essere affidata al MMG. Questa coordinazione non è sempre efficace, anche perché spesso è necessari anche uno stretto monitoraggio di uno specialista, più esperto nel trattare determinate patologie ed utilizzare determinate terapie più specifiche. Questa interazione tra specialista e MMG può portare vantaggi da entrambi i lati, come ad esempio una conoscenza più profonda del paziente da parte dello specialista e una collaborazione operativa con lo specialista per il MMG.

In Regione Lombardia questo servizio di gestione del paziente cronico, offerto da strutture accreditate, prevede un piano assistenziale globale che riguarda le patologie croniche del paziente, che non sono più sotto la tutela del MMG.

Sicuramente però il MMG deve rimanere coinvolto nella terapia del paziente, anche se in possesso di un PAI (Piano Assistenziale Individuale, ndr) fornito dalla struttura che ha scelto per prendere in carico le sue cronicità.

Quindi una struttura normativa e operativa esiste ed è chiara, tutto dipende dall’applicazione puntuale che di questa normativa si fa: la struttura accreditata deve seguire correttamente il paziente cronico, il MMG deve assistere il suo paziente globalmente, soprattutto per le patologie non croniche e per l’aspetto sociosanitario.

Qual è attualmente il ruolo del Clinical Manager nella pianificazione dell’assistenza sanitaria e dei percorsi di cura?

Il Clinical Manager della struttura accreditata esamina la documentazione del paziente e le sue patologie e, sulla base delle linee guida, determina una strategia assistenziale integrata sia di tipo clinico che socio-assistenziale. In alcune evenienze si ritiene infatti necessario segnalare il caso agli assistenti sociali per gli interventi necessari. Inizialmente erano i diversi specialisti a stilare i PAI, ma per pazienti poli-patologici potevano esistere più PAI, ognuno fornito da un diverso specialista. Per questo motivo è stato considerato funzionale che fosse un internista o un MMG (la mia professione per molti anni) a fare da raccordo tra tutti gli specialisti, per la sua visione globale. Per cui il Clinical Manager si occupa di decidere quali esami fare, con quale frequenza, d’intesa con gli specialisti. Il Clinical Manager si occupa poi di attività di ricettazione e anche di comunicare con i pazienti, spesso bisognosi di avere risposte rapide ai loro dubbi e alle loro preoccupazioni.

Sicuramente i pazienti che beneficiano maggiormente della figura del Clinical Manager sono i cronici pluri-patologici, che possono evitare di vagare da uno specialista all’altro, avendo d’altro canto un clinico che interpreta le diverse opinioni specialistiche e le raccorda in una strategia diagnostica e terapeutica unitaria.

Sono necessari studi e/o iniziative per condividere con la comunità scientifica la definizione di “paziente fragile” e i suoi bisogni?

Non credo siano necessari studi scientifici particolari. Le esperienze delle varie componenti assistenziali devono essere portate alla conoscenza di tutti e condivise in convegni, tavole rotonde, pubblicazioni.

E’ necessario parlare di fragilità, divulgare e continuare a porre all’attenzione dei clinici (MMG e specialisti, e anche delle istituzioni) i bisogni dei pazienti fragili, alla luce dell’esperienza diretta degli operatori sanitari, medici, infermieri e operatori sociali.

I contenuti sono ormai chiari e sulle definizioni c’è ormai un accordo diffuso, ma è necessario condividerli per migliorare la loro applicazione.