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Intervista alla Dott.ssa Simona Sarzi Braga, Responsabile SC Cardiologia IRCCS Maugeri, Tradate
Se parlo di “paziente fragile” a chi pensa?
Focalizzando sull’ambito strettamente sanitario quando penso al paziente fragile emerge il quadro di una persona generalmente anziana con problemi di salute che ha perso alcune fondamentali capacità funzionali e sta subendo un progressivo declino del suo stato psico-fisico. È la pratica clinica quotidiana che mi ha permesso di allargare la visuale: oltre a tutto ciò il paziente fragile cui prestiamo le cure di Cardiologia Riabilitativa è anche una persona con compromissione affettiva all’interno di un ambiente spesso socialmente e strutturalmente sfavorevole. E non sempre questo paziente è l’anziano con malattia cronica.
A suo parere è un tema conosciuto/compreso da medici e istituzioni sanitarie?
In termini generali sì e senza dubbio, sia dai medici che dalle istituzioni sanitarie. Il recente modello lombardo di presa in carico dei pazienti affetti da patologie croniche in cui un medico gestore organizza tutti i servizi sanitari e sociosanitari per rispondere ai bisogni del singolo paziente, programmando prestazioni ed interventi di cura specifici è una iniziale apertura in questo senso. Ma la gestione della fragilità è e richiede molto di più perché per definizione più ampia del singolo aspetto socio-sanitario.
Il primo passo fondamentale è però identificarla, la fragilità. Spesso ci è capitato, come gruppo di lavoro, durante il ricovero riabilitativo di venire ‘travolti’ da problematiche, oltre che cliniche, anche di tipo socio-economico-assistenziale la cui gestione ha assorbito una elevata quantità di risorse. Siamo però consapevoli che la continuità di cura passa anche attraverso la gestione di tali problematiche: solo così siamo in grado di migliorare l’outcome del paziente, prevenire le complicanze ed evitare una re-ospedalizzazione precoce. Durante il ricovero in Cardiologia Riabilitativa sono diventati elementi fondamentali la valutazione dello stato nutrizionale, del rischio di caduta, della capacità visiva ed uditiva; il programma di training fisico impostato e proposto in dimissione ha infine lo scopo di rallentare il declino fisico correlato a età e patologia. La dimissione protetta fa da tempo parte della nostra realtà.
Quali sono le attuali criticità a suo parere nella presa in carico del paziente fragile?
Ritengo che la maggiore criticità sia la frammentazione delle cure e degli interventi. Manca ancora una vivace e costante collaborazione tra le figure, sanitarie e non, che sono gli attori di un evento per certi versi ineluttabile. Non siamo stati abituati a lavorare in team: il medico di medicina generale, lo specialista, il riabilitatore, lo psicologo, il personale dei servizi sociali, il caregiver spesso parlano lingue diverse e ciascuno fa quello che può. È solo una ‘cultura della fragilità’ che ci può far lavorare tutti con un unico scopo: quello della preservazione della salute fisico-psico-sociale del paziente. La condivisione delle informazioni relative al paziente e soprattutto il difficile accesso a tali informazioni è un ulteriore barriera che non facilita la comunicazione tra i vari attori. Spesso ciascuno fa il suo ma manca chi tira le fila della questione cioè il regista.
Mancano progetti atti a rallentare il progressivo declino delle funzioni, altri che mirino all’healthy aging, altri ancora al mantenimento dell’autonomia e della qualità della vita. In fondo è quello che i pazienti ci chiedono. In questo contesto la nostra mission di Cardiologi Riabilitatori, esperti della prevenzione cardiovascolare assume un ruolo fondamentale.
Chi è o dovrebbe essere il riferimento di questo paziente?
Il riferimento del paziente fragile non può che essere, a mio parere, la medicina di base, in un rapporto stretto e collaborativo con l’Ospedale, l’Istituto di Riabilitazione, lo Specialista e tutte le figure che contribuiscono, con la loro expertise, ad una gestione ‘sartoriale’ del paziente, che tenga conto il più possibile delle sue specifiche peculiarità. In generale, penso che il paziente desideri un rapporto privilegiato con il proprio medico di medicina generale, fatto di conoscenza, vicinanza e condivisione. Conosco realtà virtuose da questo punto di vista, in cui il medico di medicina generale è davvero il punto di riferimento ed il regista del percorso, spesso condiviso con un’altra figura di rilievo, quella dell’infermiere ‘di quartiere’.
Come si può superare la frammentarietà di presa in carico tipica dei percorsi di cura di questi pazienti? Quali soluzioni immagina per la gestione della presa in carico appropriata del paziente fragile?
La frammentarietà è forse l’ostacolo più rilevante della presa in carico del paziente fragile. Essa implica inoltre uno spreco di risorse con risultati sub-ottimali.
Come sempre per centrare un obiettivo bisogna pianificare i percorsi. Penso che prima di tutto si debba partire dalla formazione, che deve essere una formazione del team di lavoro, fortemente radicata sul territorio, con la partecipazione della famiglia, e del caregiver in generale, che deve essere responsabilizzata sul proprio ruolo. Andrebbe quindi ideato un tavolo di lavoro, gestito in primis dal medico di medicina generale, sul singolo caso con obiettivi clinico-socio-assistenziali condivisi con il paziente e le sue peculiari aspettative che sono il punto di partenza dell’intero programma di lavoro. Infine, è necessaria una rivalutazione periodica di verifica dei risultati ottenuti per avere la possibilità di aggiustare il tiro ove richiesto. Non va scordato che la gestione del paziente fragile non è semplice anche perché le sue condizioni variano nel tempo e tale dinamicità̀ comporta continui cambiamenti della classe di assistenza e degli interventi, Per tale motivo l’organizzazione dovrebbe essere altrettanto dinamica, con la capacità di adattarsi a qualsiasi tipo di bisogno del paziente sia per quanto riguarda il modello che per la presa in carico.
È chiaro che un forte impegno e sostegno delle Istituzioni è conditio sine qua non per questa ‘rivoluzione sul territorio’ dedicata al paziente fragile.
Sono necessari studi e/o iniziative per condividere con la comunità scientifica la definizione di “paziente fragile” e i suoi bisogni?
Ogni iniziativa che faccia ri-emergere il problema deve essere sempre ben accolta. Per quanto attiene agli studi mi piace riportare che parte dei fondi del 5 per mille attribuiti recentemente a ICS Maugeri sono serviti per sostenere un progetto di ricerca multidisciplinare (cardiologi, pneumologi, psicologi) sulla fragilità. Il progetto, dal titolo ‘Decadimento cognitivo, fragilità e outcome riabilitativo in pazienti anziani affetti da patologia cardiorespiratoria’, di cui sono il coordinatore, è uno studio osservazionale prospettico i cui obiettivi sono quelli di valutare, in basale, la presenza di decadimento cognitivo, ansia, depressione e fragilità in un campione di pazienti anziani affetti da malattia cronica cardiorespiratoria ricoverati per riabilitazione. Lo studio valuta la correlazione con la severità di malattia e gli aspetti funzionali e, in follow-up, intende documentare l’impatto che questi fattori hanno sull’outcome riabilitativo e sullo stato di salute a sei mesi. È solo un esempio, tra tanti, per far emergere come la ricerca costante sia la base del nostro comune agire clinico quotidiano.
Un’alleanza tra classe medica e Associazioni Pazienti potrebbe essere utile a portare queste istanze alle Istituzioni?
Le Associazioni dei Pazienti, soprattutto in alcuni contesti clinici, hanno assunto un ruolo importante nel nostro sistema sanitario, partecipando spesso a decisioni istituzionali che riguardano la sanità e l’erogazione delle prestazioni. Esse sono l’espressione del ruolo attivo che i pazienti oggi pretendono nel rapporto con medico ed istituzioni sanitarie. Ritengo che, con un’azione sinergica e congiunta con il team multidisciplinare dedicato alla presa in carico, potrebbero fungere in effetti da sprone alle Istituzioni al fine di ottenere quello che ancora oggi non abbiamo ottenuto: una presa in carico reale, efficace e onnicomprensiva del paziente.