Intervista al Prof. Michele Vitacca – Capo del Dipartimento di Pneumologia riabilitativa e primario di Pneumologia IRCCS Maugeri di Lumezzane (BS)

Intervista al Prof. Michele Vitacca – Capo del Dipartimento di Pneumologia riabilitativa e primario di Pneumologia IRCCS Maugeri di Lumezzane (BS)

Se parlo di “paziente fragile” a chi pensa?

Stiamo sicuramente parlando di condizioni complesse, molto spesso legate alla cronicità delle patologie e all’allungamento della vita, che ha moltiplicato le necessità cliniche.

Nella mia esperienza associo alla definizione di paziente fragile un paziente anziano, cui sono stati prescritti numerosi farmaci per la propria condizione di cronicità, che ha perso peso negli ultimi mesi, che ha frequenti riacutizzazioni, con il bisogno di ricorrere frequentemente al proprio medico, che è a rischio di caduta o che è caduto negli ultimi mesi, con il rischio di una grave disabilità. Inoltre, può avere problemi cognitivo-comportamentali, con perdita della memoria, vive solo e non sa a chi rivolgersi per le proprie necessità. Infine, ma non meno importante, un paziente fragile è una persona che può presentare difficoltà economiche.

Pertanto, la fragilità si caratterizza per una compenetrazione di aspetti sociali e clinici e si localizza generalmente fuori dall’ospedale, integrandosi nel contesto in cui si vive: confrontando pazienti con la stessa patologia, lo stesso livello di gravità, lo stesso livello di problematiche sanitarie, l’impatto della malattia e l’aspettativa di recupero sono completamente diversi in funzione del contesto in cui un paziente vive. È molto importante tenere i piani clinico e sociale diversificati, anche se molto spesso, intrecciandosi strettamente tra di loro, necessitano di risposte combinate e multifattoriali.

A suo parere è un tema conosciuto/compreso da medici e istituzioni sanitarie?

Il tema è sicuramente molto sentito da parte delle istituzioni sanitarie, presente in tutti i documenti e in tutte le raccomandazioni. Quanto poi le istituzioni sanitarie siano in grado di coordinare tutte le problematiche del paziente fragile a casa, è difficile da dire. Sicuramente c’è una grossa diversità territoriale in Italia, con Regioni più sensibili sulla tematica.

Per quanto riguarda la classe medica, non posso dire che in assoluto tutti i miei colleghi siano così attenti al problema della fragilità. Chi lavora in ospedali più per acuti, in particolare in alcuni reparti, è generalmente meno sensibile al tema, delegandolo a figure non mediche, come infermieri e assistenti sociali. Alcune specialità (come geriatria e medicina interna) sono più avvezze a questi temi, così come tutti coloro che si occupano di cure intermedie, di post-acuzie e di riabilitazione, come il nostro network Maugeri, dove siamo strettamente coinvolti nelle problematiche dovute alla disabilità e quindi al recupero, ma anche alla fragilità.

Quali sono le attuali criticità a suo parere nella presa in carico del paziente fragile?

Sicuramente il momento in cui c’è da dimettere il paziente al proprio domicilio è un momento molto critico: è necessario capire le condizioni che il paziente e la famiglia troveranno una volta tornato al proprio domicilio. Inoltre, l’ospedalizzazione può comportare un peggioramento delle condizioni del paziente, inasprendo il quadro di disabilità. Pertanto, il rientro al proprio domicilio deve essere accompagnato in modo tale che servizi sociali e sanitari, al bisogno o continuativi, possano alleviare i problemi del paziente che deve essere reintegrato al proprio domicilio. Ricordiamo, inoltre, che molte patologie croniche particolarmente debilitanti impattano non solo sul paziente ma anche sulla famiglia, con il caregiver che diventa attore della cura, compartecipando con i sanitari per la cura del loro congiunto. Purtroppo, qualche volta il familiare diventa esso stesso soggetto della cura, a causa dell’aumento del rischio di ansia, depressione, mancanza di tempo, cui in alcuni casi si aggiungono le difficoltà economiche. Si tratta quindi di una situazione molto complessa che va analizzata in tutte le sue sfaccettature.

Un’ulteriore criticità per un paziente fragile risiede sicuramente nella mancanza di una “regia” che metta in ordine e decida le priorità per i suoi numerosi bisogni di natura diversa. Un paziente fragile, infatti, ha bisogno di risposte sulla sua instabilità clinica, sulla sua disabilità ma anche sulla sua fragilità. Quindi i soggetti che devono dare risposte sono molto diversificati, ma questi soggetti si devono parlare. È quindi necessario un case manager, che tiri le fila e trovi le priorità, giorno per giorno, mese per mese, condizione per condizione.

Chi è o dovrebbe essere il riferimento di questo paziente?

Il primo fra tutti gli attori dovrebbe essere il proprio Medico di Medicina Generale (MMG), che sulla carta ha proprio questo compito, ma purtroppo non sempre è all’altezza di quello che gli viene chiesto, nella maggioranza dei casi non per sua responsabilità ma per l’estrema complessità delle problematiche che si trova a dover risolvere.

Inoltre, non esiste una vera e propria regola fissa di chi dovrebbe assumere il ruolo di riferimento, che possiamo definire Case Manager. Dipende dalle necessità e dalle priorità del paziente e può cambiare nel corso del tempo: in caso la problematica prevalente sia l’instabilità clinica il riferimento deve essere il medico. Qualora sia la disabilità la problematica maggiore, la regia deve essere guidata dal terapista. Se invece la criticità principale è di natura sociale, l’assistente sociale è sicuramente l’interlocutore più adatto. Ci sono poi occasioni in cui il punto di riferimento è lo stesso caregiver.

Chiunque sia a dirigere, però, ciò che è necessario ottenere è proprio la messa in comune delle problematiche e quindi che questi attori comunichino tra loro, per evitare di frammentare il percorso di cura, che rende il sistema assolutamente inefficiente poiché fornisce una sommatoria di risposte che non interagiscono fra loro. Questo dipende ovviamente dall’antico problema della separazione tra ospedale e territorio. Negli ultimi anni dei tentativi di collaborazione sono stati fatti, ma non vedo ancora una messa a regime di sistemi virtuosi che obblighino i vari attori a parlarsi. Per migliorare questo aspetto comunicativo, una delle ipotesi scaturite dalla recente crisi COVID è quella della messa a comune delle informazioni grazie all’uso della tecnologia, un’opzione sicuramente molto ragionevole, in cui tutti gli attori, disseminati sul territorio, possono parlarsi con l’ausilio di strumenti informatici, scambiandosi informazioni e consulti in tempo reale. Si tratta di un’opportunità relativamente semplice, qualche esperienza sul territorio c’è, come la tele-sorveglianza, ma molta strada c’è da fare per mettere a regime queste esperienze virtuose ma ancora sperimentali.

Come si può superare la frammentarietà di presa in carico tipica dei percorsi di cura di questi pazienti?

Sicuramente un possibile strumento è quello che abbiamo accennato e dipendente dal supporto della tecnologia, che permettere agli attori di comunicare tra loro anche da lontano e mettere a sistema tutte le informazioni relative a questi pazienti.

Inoltre, possiamo pensare all’implementazione di percorsi di assistenza domiciliare, con più figure professionali che possono accedere al domicilio, in quanto la medicina fatta a distanza può essere uno strumento sinergico ma non può sostituire l’assistenza diretta. L’organizzazione di percorsi infermieristici, fisioterapici e psicologici al domicilio sono, saranno e dovranno essere strumenti da proporre, organizzati direttamente dal territorio, come avviene in alcune Regioni, oppure organizzati dall’ospedale, che ha una forte capacità diagnostica-terapeutica per organizzare anche il follow up di questi pazienti, ma non è abituata ad allontanarsi dalle mura ospedaliere. Quindi percorsi virtuosi in cui pezzi di ospedale vanno a domicilio e interagiscono con altri soggetti del territorio sarebbero interessanti sperimentazioni.

Possiamo poi pensare a numerose altre forme di presa in carico del paziente fragile, più o meno fantasiose, come una cooperazione tra badanti, che possono aiutarsi loro, come la badante di condominio, l’infermiera di condominio o di distretto. È possibile immaginare anche forme miste tra domicilio e ambulatorio, in cui il paziente fragile accede a strutture diurne per ricevere aiuto durante la giornata.

Dobbiamo pensare che non esiste e non può esistere un’unica risposta ma tante soluzioni che devono essere modulate in funzione della condizione individuale del paziente. Dare una risposta a pacchetto, fissa per tutti, è sempre la soluzione sbagliata perché si rischia di dare troppo a chi ha un bisogno minore e troppo poco a chi invece ne avrebbe più bisogno. Il Case manager quindi dovrebbe avere a disposizione più strumenti che sceglie per cucire sul paziente la soluzione ideale.

Sono necessari studi e/o iniziative per condividere con la comunità scientifica la definizione di “paziente fragile” e i suoi bisogni?

Assolutamente sì. C’è molta letteratura nell’ambito di fragilità nel mondo geriatrico ma penso ci sia ancora molta confusione terminologica, che presta il fianco a interpretazioni “personali”. Una maggior chiarezza è indispensabile, insieme a una maggior messa a comune delle definizioni, senza confondere il piano clinico con quello sociale, che devono fornire differenti risposte.

Inoltre, se la comunità scientifica trovasse una miglior definizione, ciò andrà a beneficio non solo di clinici ed accademici, ma avrà anche esternalità positive nella comunità sociale, supportando inoltre i decision makers, siano essi regionali (che hanno in capo la sanità) o comunali (responsabili dell’assistenza sociale). È necessario infatti ricucire sempre piu questa separazione tra sociale e sanitario al fine di dare le miglior risposte nel più breve tempo possibile ai nostri pazienti fragili.

Il momento per fare ciò è sicuramente maturo, anche grazie all’esperienza della pandemia che stiamo vivendo, che ha stravolto anche la concezione di come dovremmo seguire i nostri pazienti. Abbiamo capito che il solo ospedale, le sole altissime specializzazioni, pur assolutamente necessarie, non sono sufficienti. Il Covid ha rivoluzionato le priorità di risposte da dare ai pazienti, ricordandoci però che ci sono anche altre necessità, altri malati oltre al Covid e questi bisogni assistenziali al momento sono tralasciati. Non potendo dare risposte solo ospedaliere dobbiamo inventarci qualcosa di alternativo, che non può che essere sul territorio e ripensato sulle reali necessità dei pazienti cronici.

Un’alleanza tra classe medica e Associazioni Pazienti potrebbe essere utile a portare queste istanze alle Istituzioni?

Non dobbiamo assolutamente dimenticarci delle Associazioni Pazienti, che sono una spina dorsale importantissima sul territorio. Come clinici, noi dobbiamo supportare queste Associazioni, è un dovere della classe medica, imparando ad ascoltare le loro necessità, ma dobbiamo anche essere in grado di guidarle sulla base di criteri di evidenza scientifica.

C’è qualcosa che vuole aggiungere sul tema del paziente fragile?

La ricerca sul paziente fragile è molto estesa ed offre potenzialità nuove per il futuro, nell’ottica di un ripensamento dell’intera medicina dedicata al paziente fragile. La rimodulazione dei farmaci, del modo di diagnosticare e di prescrivere, sia farmaci che prestazioni, è molto cambiata recentemente. Abbiamo dovuto ripensare il modo di approcciare il paziente, non più mono-patologico ma pluri-patologico. Di fronte a ciò la medicina deve ripensarsi, trovare le priorità volta per volta e saper mediare il percorso ideale del paziente, non sempre perfettamente rispondente alle linee guida, che danno delle direttive ma nulla hanno a che fare con la vita di tutti i giorni. Dovremo ripensare anche le nostre sperimentazioni, che sono basate su pazienti “perfetti”, con una sola patologia e che non assumono altri farmaci. La vita reale invece è tutta un’altra storia, ma è con questa che abbiamo a che fare nella pratica quotidiana. È un lavoro difficile che ci farà riscrivere i libri di medicina, che ancora non si occupano di complessità e fragilità, estremamente sfidante, ma che può portare grandi soddisfazioni.