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Dic
Intervista a Antonio Pinna – Scrittore e volontario
Lo scorso anno ha tenuto a battesimo il lancio del posizionamento di Fondazione Salvatore Maugeri, focalizzata sulla cura del paziente fragile. Quest’anno ha pubblicato un libro, a tema paziente fragile. Ma chi è per lei il paziente fragile?
Il paziente fragile è fragile costituzionalmente. È fragile perché ha una patologia, spesso una patologia cronica o neurodegenerativa. A causa di queste diventa spesso non autosufficiente, e, in situazioni estreme, la patologia è incurabile allo stato della ricerca terapeutica odierna.
Poi è fragile in un altro senso: così come si dice che la società non riesce ad offrire gli opportuni strumenti per l’inserimento sociale, l’integrazione e la valorizzazione delle competenze ed abilità residue delle persone disabili, allo stesso modo il paziente fragile risulta tale perché è fragile il suo contesto socioassistenziale. Questo è particolarmente vero in Italia, e proprio quest’ultimo tratto caratterizza la mia ultima pubblicazione, “La cura ai tempi del Covid-19”.
L’epidemia da Covid -19 pone inediti problemi di gestione dei pazienti cronici che necessitano nuovi modelli di presa in carico con un’integrazione fra ospedale e territorio. Qual è il suo pensiero a proposito?
Questa pandemia ha messo a nudo tutte le debolezze del sistema assistenziale, sociosanitario, che mancavano di articolazioni sul territorio. C’erano già delle debolezze per quanto riguarda l’assistenza domiciliare, io ne avevo già parlato nel mio precedente libro, pubblicando dei dati di una ricerca di Cittadinanzattiva. Debolezze dal punto di vista quantitativo e qualitativo in merito alla presa in carico e alla continuità assistenziale. Queste debolezze si sono accentuate gravemente, come evidente da alcuni esempi: durante il primo periodo della pandemia i medici, non essendo protetti, non potevano più visitare i pazienti. Inoltre, siamo stati costretti alla chiusura dei centri diurni per le persone disabili, soprattutto bambini e ragazzi. Ci siamo trovati in queste situazioni estreme mai vissute precedentemente. Tutto ciò ci ha portato a una situazione di “non ritorno”: uso questa espressione mutuata dal rapporto 2020-2021 sui pazienti non autosufficienti recentemente pubblicata. Siamo arrivati a una situazione ai minimi termini e da qui dobbiamo ripartire.
Perché, quando parliamo di paziente fragile è importante parlare anche di caregiver? (quali sono le responsabilità del SSN per alleggerire la pressione sui familiari?)
Il caregiver è l’interfaccia del paziente fragile, soprattutto quando non autosufficiente. Innanzitutto, voglio soffermarmi sul termine “caregiver”, non di uso comune ma ristretto a un ambito ancora specialistico: voglio spezzare una lancia a favore di questo inglesismo, che non ha un equivalente nella nostra lingua, nonostante il termine assistente familiare, indicato come sostituto dall’Accademia della Crusca. Il termine assistente familiare è ambiguo, usato nell’ambito lavorativo come sinonimo di badante. Ma soprattutto non ha la pregnanza del termine caregiver, che letteralmente significa “portatore di cura”, dove cura ha un significato più ampio di “prendersi a cuore”, anche per l’affetto familiare che si nutre. Il caregiver si “prende a cuore” il suo caro H24, da diversi punti di vista: somministra le medicine, vigila sulle reazioni alla terapia, parla con medici e infermieri, si occupa di gestire tutta l’assistenza, è l’interfaccia di tutte le pratiche burocratiche, ivi comprese quelle per ottenere sussidi e assegni cui il malato ha diritto, gestisce il calendario visite. Infine, deve fare i conti: sussidi e aiuti spesso non bastano e bisogna ricorrere ai risparmi familiari.
L’iter della legge sui caregiver familiari è iniziato cinque anni fa, con il deposito del primo testo di legge, ma non è ancora stata approvata, seppur estremamente necessaria. C’è un tema del lavoro, molti caregiver sono costretti ad abbandonare il proprio lavoro, con ovvie conseguenze dal punto di vista economico, assicurativo e previdenziale. Bisognerebbe prevedere meglio questo ruolo nei contratti lavorativi pubblici e privati, la Legge 104 è un passo avanti ma insufficiente. Sarebbe necessario un regime di pause, a causa della pressione del carico assistenziale, come previsto per esempio in Germania. Inoltre, deve essere assolutamente snellita la burocrazia, che impegna ai caregiver grandissime quantità di tempo.
Il Servizio Sanitario Nazionale deve poi far emergere questa figura preziosissima, interfaccia del medico. L’SSN deve concorrere alla formazione del caregiver, fornendo un’alfabetizzazione sanitaria per comunicare, per esempio, i parametri fisiologici, magari attraverso l’uso della telemedicina. Qui entra in campo il ruolo delle Regioni, che hanno il compito di organizzare la rete socioassistenziale, anche di prossimità. Questi servizi sono fondamentali, devono essere prossimi e agevoli per facilitare il compito anche dei caregiver.
FSM sostiene la ricerca a favore del paziente fragile: ritiene che oggi ci siano sufficienti sensibilità e consapevolezza sulla presa in carico del paziente fragile?
In gran parte dell’Italia questo termine, “presa in carico”, è letteratura, presente in gran parte solo nel linguaggio degli specialisti. Molte di queste malattie hanno necessità di un approccio multidisciplinare e domiciliare. È necessario andare dai pazienti al loro domicilio e non sempre accade.
Una figura chiave che potrebbe essere d’aiuto è quella dell’”Infermiere di Famiglia”, di cui uno degli ultimi Decreti prevede l’assunzione in 9.600 unità. Ci sono delle esperienze in alcune Regioni italiane, ma siamo ancora indietro dal punto di vista del reclutamento di questi professionisti.
È necessario migliorare le conoscenze sul tema di tutti gli attori del sistema sanitario, classe medica, Istituzioni e popolazione. Dobbiamo comprendere, infatti, che il numero di questi pazienti è molto alto, poiché in Italia viviamo a lungo, ma l’ultima parte della nostra vita è complicata da comorbilità, dalla presenza di più patologie. I costi saranno sempre più alti, per questo sono necessarie formazione, informazione e prevenzione. Serve un grande lavoro di squadra, dobbiamo rimettere al centro la sanità pubblica investendo anche molte risorse. Abbiamo ancora una sanità di buon livello a livello internazionale, pur con un numero di operatori sanitari non altissimo, grazie alla loro abnegazione, ma non dobbiamo trasformarli in eroi.
Secondo lei, al termine – speriamo vicino – di questa emergenza quale insegnamento ci resterà dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria in tema, soprattutto, di prevenzione e cronicità?
Io vorrei e lo spero davvero ma non ne sono convinto, perché l’uomo è un animale abitudinario e non ci vorrà molto a riprendere le vecchie abitudini quando la situazione tornerà alla normalità.
Penso, però, che in ambito sanitario abbiamo delle intelligenze e una ricerca che, pur sottofinanziata produce risultati eccezionali. Abbiamo grandi risorse e questa pandemia ci dovrebbe insegnare che non dovremmo vantarci dei nostri meriti e nascondere i nostri errori e quanto sta accadendo non mi dà molta speranza.