Intervista al Prof. Matteo Cesari – Responsabile dell’U.O medicina interna ad indirizzo geriatrico IRCCS Milano, Professore Associato in Geriatria presso l’Università degli Studi di Milano

Intervista al Prof. Matteo Cesari – Responsabile dell’U.O medicina interna ad indirizzo geriatrico IRCCS Milano, Professore Associato in Geriatria presso l’Università degli Studi di Milano

Se parlo di “paziente fragile” a chi pensa?

Il fenotipo clinico tradizionalmente associato alla fragilità è quello di una persona che cammina lentamente, facilmente affaticabile, a rischio di cadere, che presenta sarcopenia (declino qualitativo e quantitativo della massa muscolare) e/o che ha perso peso in modo involontario. La realtà è, tuttavia, molto più complessa.

La fragilità ha una presentazione clinica molto eterogenea, un’eterogeneità tale che la fragilità non è sempre evidente alla prima osservazione. In questo contesto, bisogna considerare che i geriatri utilizzano la condizione della “fragilità” per differenziare la persona biologicamente anziana da quella solo anagraficamente anziana. La fragilità, infatti, è una condizione prima di tutto biologica, legata a un processo di invecchiamento accelerato e accentuato che rende la persona più vulnerabile ai continui stress (esogeni ed endogeni) della vita. Tale vulnerabilità si traduce in un maggior rischio di eventi avversi, in particolare cadute, ospedalizzazione, istituzionalizzazione, disabilità e morte. È importante sottolineare che la fragilità è un concetto completamente differente da quello della disabilità e della multimorbidità (presenza simultanea di più malattie). Le disabilità e le malattie rientrano nelle manifestazioni cliniche di quella riduzione delle riserve omeostatiche che definisce la fragilità.

Alla vulnerabilizzazione della persona causata dalla fragilità può sicuramente contribuire l’aspetto sociale. L’ambiente in cui la persona vive può causare situazioni di stress che possono alimentare la fragilità e concorrere nel far crollare quel precario equilibrio omeostatico che la caratterizza. Come è stato anche sottolineato recentemente dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, l’ambiente può veramente influenzare il processo fisiologico dell’invecchiamento e non può non essere considerato nel momento in cui si deve inquadrare clinicamente una persona.

A suo parere è un tema conosciuto/compreso da medici e istituzioni sanitarie?

In una fotografia, possiamo dire che la classe medica è andata prendendo coscienza della tematica in questi ultimi anni, mentre le istituzioni sanitarie sono purtroppo più in ritardo.

Scendendo nei dettagli, il concetto di fragilità non è nuovo alla comunità scientifica, con articoli risalenti agli anni ’60 e che lo utilizzano per spostare l’attenzione clinica dall’età della persona alla sua biologia. Negli ultimi vent’anni, si è cercato in questo scenario di ristrutturare i servizi sanitari per meglio rispondere alla crescente complessità delle persone (sempre più fragili, anziane, con patologie croniche e difficoltà sociali) che vi afferivano. Purtroppo, ci si rende conto come sia ancora particolarmente difficile non guardare all’età anagrafica nel prendere decisioni diagnostiche e/o terapeutiche. Diamo ancora molto peso alla “singola malattia” e perdiamo troppo facilmente di vista la complessità biologica, clinica e sociale della persona fragile.

La necessità di modificare l’approccio clinico alla persona fragile è stata portata avanti negli ultimi anni dai geriatri, seppur con una visibilità molto limitata. Oggi l’emergenza pandemica rende evidente le difficoltà nel gestire la fragilità all’interno del sistema. Diventa palese come sia obbligatorio valutare multidimensionalmente l’individuo, applicare modelli di gestione multidisciplinare e sviluppare un sistema di cure integrate che si sposti a supporto della medicina di base e del territorio. La pandemia ci ha dimostrato, purtroppo, quanto ancora siamo lontani da tutto ciò.

Ritengo sia fondamentale formare le nuove generazioni di medici, infermieri, ed operatori socio-sanitari sulla necessità di lavorare maggiormente insieme, integrando le conoscenze, favorendo la multidisciplinarità e sviluppando servizi che mettano effettivamente la persona al centro dell’attenzione. Allo stesso tempo, è necessario intaccare la percezione negativa che la società ha dell’invecchiamento. Se questo cambiamento non avverrà, sarà impossibile prendere adeguatamente in carico la fragilità.

Quali sono le attuali criticità a suo parere nella presa in carico del paziente fragile?

Innanzitutto, la forma mentis degli operatori. Si deve abbandonare l’attuale mentalità troppo concentrata ad osservare settorialmente e mai con una visione multidimensionale le anomalie biologiche e cliniche della persona. È necessario acquisire la capacità ad una visione d’insieme, olistica, per favorire la presa in carico del paziente fragile e non della sua patologia. Questo modello volto alla personalizzazione dell’intervento è chiamato valutazione multidimensionale geriatrica. Le evidenze ci dicono che rappresenta il gold standard da applicare nella presa in carico delle persone fragili. Non applicare questo modello oggi significa entrare nella malpractice.

Inoltre, è necessario riconsiderare il concetto di invecchiamento nella pratica clinica. Nessuno di noi è immortale e prima o poi ognuno dovrà affrontare il viaggio finale. La malattia rappresenta “solo” la manifestazione di un sistema che sta invecchiando, la riduzione delle risorse omeostatiche dell’organismo. C’è normalità nella malattia. Dobbiamo imparare ad accettare le malattie. In questo contesto, non dobbiamo focalizzare l’assistenza esclusivamente sulla condizione clinica, ma iniziare a meglio valutare le specifiche priorità della persona di fronte a noi. Scopriremo, così, che la persona fragile pone molto spesso le sue priorità nella preservazione dello stato funzionale piuttosto che nella cura della malattia. Questi sono valori che purtroppo ancora sfuggono alla medicina tradizionale. Anche perché i trial clinici non prendono ancora adeguatamente in considerazione il fatto che gli outcome di interesse per le persone anziane non sono necessariamente gli stessi dei giovani. Una persona anziana affetta da molteplici patologie croniche non troverà nella “guarigione” il suo obiettivo, ma prediligerà interventi che la possano mantenere il più possibile attiva sul piano fisico, cognitivo e sociale… La cura della malattia c’entra poco…

Per questo cambiamento radicale della forma mentis è necessario ridefinire gli obiettivi della ricerca, al fine di generare nuove evidenze nel rispetto di principi, valori e necessità della nuova generazione di pazienti (le persone fragili) che oggi ci troviamo ad assistere all’interno del nostro sistema sanitario. I pazienti fragili sono in ogni reparto, dal Pronto Soccorso alle chirurgie, dai reparti clinici alle unità specialistiche. La complessità che caratterizza la fragilità impatta sulla routine di tutti gli operatori sanitari e del sistema, facendo spesso emergere l’inadeguatezza delle attuali pratiche che rispondono con sempre maggiore difficoltà alle richieste specifiche dei pazienti. Non siamo adeguatamente preparati…

Quali soluzioni immagina per la gestione della presa in carico appropriata del paziente fragile, anche a seguito dei cambiamenti imposti dalla pandemia di Covid-19?

Il discorso è sicuramente complesso, soprattutto in relazione alla pandemia. Da un lato, c’è una spinta al benessere collettivo, con l’applicazione di restrizioni ed isolamenti che hanno l’obiettivo di limitare il più possibile la diffusione del virus e che vede nelle persone anziane fragili quelle maggiormente esposte alle conseguenze negative. D’altro canto, la medicina geriatrica ci insegna che queste restrizioni sono comunque dannose per questa popolazione a rischio: isolare un anziano, una persona fragile, all’interno della propria abitazione ha conseguenze drammatiche sullo stato fisico, cognitivo e psico-sociale. La situazione emergenziale ci pone pertanto di fronte a dilemmi di non facile soluzione.

Ritengo sia necessario, pertanto, far fronte a questa situazione così ambigua innanzitutto aderendo quanto più possibile alle raccomandazioni provenienti dalle autorità di sanità pubblica. Allo stesso tempo, è necessario dotarsi degli strumenti per poter mantenere attiva la persona fragile anche nel proprio domicilio durante questi periodi. In tal senso, la ricerca geriatrica ci ha portato negli anni a sviluppare dei protocolli di attività fisica, per esempio, che possono essere svolti dalla persona fragile in totale autonomia nel proprio ambiente domestico, con l’obiettivo di prevenire le conseguenze negative dell’inattività fisica. Disponiamo finalmente di tecnologie di facile consumo anche per le persone “meno tecnologiche” che permettono di rompere l’isolamento sociale che questo momento ci impone.

La cosa più grave per le persone fragili in questo periodo è probabilmente l’interruzione dei servizi sanitari. È necessario mantenere attivi i servizi soprattutto per le persone fragili, andando a cercare allo stesso tempo delle possibili alternative, come la prioritizzazione di alcune visite per le persone maggiormente in difficoltà, sviluppare delle forme di triage che possono anticipare i contatti con il sistema sanitario laddove necessario, o l’utilizzo di contatti online per ovviare alle visite in persona che possono andare perdute. Tengo a precisare a riguardo che non è, però, sempre facile (e teoricamente in contrasto con la necessità di essere multidimensionali nell’approccio alla persona anziana) attuare le cosiddette “visite telematiche” in questo campo… Per questo parlo di “contatti online” e non di telemedicina. Su questi temi, credo che la pandemia ci abbia aiutato a svecchiare alcune dinamiche obsolete del nostro sistema o quanto meno a far emergere delle criticità nascoste da tempo.

Sono necessari studi e/o iniziative per condividere con la comunità scientifica la definizione di “paziente fragile” e i suoi bisogni?

Sulla fragilità adesso si scrive veramente tanto. Il concetto negli ultimi anni si è andato strutturando ed esistono definizioni teoriche che fanno riferimento alla biologia della fragilità indicata precedentemente e che sono ben radicate nella comunità scientifica. Esistono molteplici strumenti che permettono di implementare questo costrutto nella routine clinica. Il concetto sta finalmente uscendo dal solo ambito geriatrico per diffondersi ed affermarsi anche in altre specialità che si trovano a fronteggiare la nuova complessità delle popolazioni di pazienti che assistono.

C’è bisogno di meglio strutturare la ricerca in questo campo e di svilupparla a diversi livelli:

  • A livello del paziente, cercando di migliorare l’inquadramento diagnostico e terapeutico della eterogenea persona fragile al fine di massimizzare la sua qualità di vita e stato funzionale;
  • A livello del servizio clinico, sviluppando interventi maggiormente rispondenti alle esigenze delle persone fragili;
  • A livello di sanità pubblica e società, costruendo modelli socio-sanitari che possano portare a riconsiderare la definizione stessa di “anziano”, abbandonando quella obsoleta basata sulla carta d’identità per accoglierne di nuovi interessati alle capacità funzionali della persona.

Un’alleanza tra classe medica e Associazioni Pazienti potrebbe essere utile a portare queste istanze alle Istituzioni?

La fragilità non è una malattia, motivo per cui non ci si aspetta l’esistenza di una “tradizionale” associazione di pazienti fragili. Tutti quanti noi siamo a rischio di diventare fragili, anche in rapporto agli stili di vita che conduciamo durante l’età giovane e adulta. L’invecchiamento patologico è un rischio che corriamo tutti quanti e quindi come società in toto dobbiamo agire, sollecitando le autorità pubbliche a promuovere nella popolazione strategie preventive contro le condizioni cliniche età-relate e comportamenti sani (quali attività fisica, attività cognitiva, rapporti sociali).

Come società dovremmo anche imparare a meglio accettare di invecchiare. In inglese, esiste un termine che sta prendendo piede, ageism, che identifica lo stigma cui sono soggette le persone soltanto perché anziane, avanti con gli anni. Non si considera che ciascuno di noi quotidianamente invecchia e che potrebbe subire domani i limiti che oggi applichiamo a chi è più grande di noi. Ognuno di noi ha una percentuale di rischio, più o meno alta, di sviluppare una specifica malattia; tutti quanti noi (cioè il 100%), però, invecchiamo!

È necessario iniziare a considerare non solo ciò che le persone non sono più in grado di fare e le loro limitazioni, ma le loro riserve, ciò che possono ancora dare a sé stessi e agli altri. Solo in questo modo sarà possibile migliorare la visione negativa che la società ha dell’inevitabile processo di invecchiamento. Si potrà rimodellare a quel punto anche il sistema sanitario. Saranno più evidenti gli scambi intergenerazionali grazie a una maggior condivisione, garantendo a ciascuno di vivere la propria vita con più ottimismo al fine di ottenere il tanto anelato “invecchiamento di successo”.