Intervista ad Alessandra Rivella – Presidente Associazione A.N.N.A

Intervista ad Alessandra Rivella – Presidente Associazione A.N.N.A

Qual è la missione e quali gli obiettivi dell’Associazione “A.N.N.A”?

L’obiettivo principale di A.N.N.A (Associazione Nazionale Nutriti Artificialmente, https://www.associazioneanna.it/) è quello di affiancare i pazienti in nutrizione artificiale (enterale e parenterale) e le loro famiglie in tutto il percorso che questa terapia richiede. Le persone che fanno riferimento all’Associazione sono affette da patologie anche molto diverse tra loro, poiché la nutrizione artificiale è una terapia trasversale a numerose malattie. La nutrizione artificiale può accompagnare un paziente per tempi definiti oppure essere necessaria lungo l’intero corso della sua vita, come nel caso di pazienti affetti da alcune malattie rare o croniche. Per noi affiancare significa anche aiutare il paziente nella scelta del centro di cura in base alla sua patologia, evitando lunghi pellegrinaggi per trovare il centro adatto. Inoltre, l’associazione fornisce tutti i supporti necessari, come sostegno psicologico, supporto nell’espletazione delle pratiche burocratiche, riconoscimento invalidità, Legge 104, per la conoscenza dei diritti del paziente, in modo da rispondere a tutte quelle necessità aggiuntive che lo stato patologico genera.

Tra gli obiettivi dell’Associazione c’è anche la sensibilizzazione sull’importanza di garantire a ogni paziente un supporto e un percorso nutrizionale, considerando che in Italia ancora oggi la maggior parte dei centri non rileva il peso del paziente nei momenti del ricovero e delle dimissioni. Questa pratica è particolarmente importante dal momento che il periodo di ricovero determina in numerosi casi una malnutrizione che poi può trasformarsi in una grave condizione clinica. La figura del nutrizionista è tuttora in Italia spesso sottovalutata, con ricadute negative sui pazienti cui viene a mancare questo supporto, assolutamente fondamentale per ottenere esiti di salute migliori con le medesime terapie e un’aumentata qualità della vita dei pazienti. Grazie al lavoro di numerose Associazioni, questa visione sta cambiando, con esempi positivi che partono dall’ambito oncologico, ma ancora moltissimo è il lavoro da fare affinché questo diritto sia garantito su tutto il territorio nazionale. Dove questo percorso è implementato e la qualità della vita dei pazienti che necessitano la nutrizione artificiale viene presa in considerazione, i risultati sono molto positivi, con una buona autonomia dei pazienti, anche in caso di nutrizione parenterale, la modalità più “clinicizzata” di nutrizione clinica, restituendo normalità alla vita dei pazienti, essenziale nel percorso di cura di qualunque paziente.

Avendo avuto modo di entrare in contatto con numerosi pazienti, chi è per lei il paziente fragile?

Tutti i pazienti sono fragili. L’ingresso della malattia nella vita di una persona genera fragilità, sia che questa patologia sia transitoria che in caso di patologie croniche di lunga durata. Nessuno di noi è preparato a fare i conti con i limiti della propria fisicità e lo siamo sempre meno in questa società che pone standard sempre più alti e inarrivabili. Per questo motivo il confronto con la malattia genera fragilità, di tipo psicologico, emotivo, sociale, in tutti i pazienti, perlomeno in fase iniziale.

L’epidemia da Covid -19 pone inediti problemi di gestione dei pazienti cronici che necessitano di cure ospedaliere periodiche. Lei vede il rischio di una dispersione dei pazienti sul territorio e, quindi, di problemi di aderenza alle terapie per timore di accedere agli ospedali e contrarre il virus?

Purtroppo, questo non è più solo un timore ma un dato di fatto: l’80% dei pazienti afferenti all’Associazione non ha svolto il follow up al centro di riferimento. Questo sia per un timore da parte dei pazienti di entrare in contatto con il virus, ma anche perché in determinati casi l’attività del centro è stata sospesa per trasformare interi centri in reparti Covid, con sospensione quasi totale delle attività, se non quelle urgenti.

Molti pazienti associati, pur abituati a lunghi ricoveri causati dalla loro patologia, stanno vivendo questo momento con una sorta di terrore legato proprio al momento del ricovero, che dipende sicuramente in parte dal timore del contagio e delle sue conseguenze in un organismo già fragile, ma anche da ciò che la pandemia ha generato a livello organizzativo: i ricoveri in temo di Covid sono esperienze solitarie, senza il conforto delle visite dei propri cari, e questo è sicuramente un tema che genera apprensione, se non panico. Va riconosciuto che alcune strutture stanno ponendo rimedio a questa situazione, istituendo protocolli che permettano di ripristinare almeno le visite, supporto emotivo e affettivo fondamentale per chi è costretto a ricoveri lunghi o ripetuti.

È innegabile però che in questo momento storico che la pandemia ci consegna siamo tutti fragili e coloro che soffrono di patologie croniche percepiscono un pericolo quotidiano dipendente dal virus e dalla sua circolazione, un pericolo che mette a rischio non solo le loro abitudini ma la loro stessa vita. A dimostrazione di ciò, il servizio psicologico offerto dalla nostra Associazione, precedentemente utilizzato in maniera saltuaria, ha visto un forte aumento della richiesta.

Come giudica, in generale, la continuità terapeutica ospedale-territorio nella sua realtà?

L’Associazione ha un respiro nazionale e pertanto ha avuto modo di conoscere più realtà. Dal punto di vista del paziente e del riconoscimento di determinati servizi e determinati percorsi di cura, il nostro Paese presenta sicuramente una situazione disomogenea: per esempio, la nutrizione enterale, che tra le forme di nutrizione artificiale è la più diffusa, viene gestita generalmente sul territorio, con una formazione sufficiente del personale territoriale. Non mancano sicuramente criticità ma senza dubbio risulta più carente il servizio offerto per la nutrizione parenterale, anche a causa delle competenze maggiori che questa richiede. Infatti, risulta di particolare importanza la competenza della gestione del rischio di insorgenza della sepsi, un effetto collaterale potenzialmente letale. Le sepsi sono determinate nella maggior parte dei casi da una gestione imperfetta dei cateteri venosi centrali necessari alla nutrizione parenterale, su cui è necessaria una formazione maggiore da parte degli operatori, che dovrebbe comprendere non solo nozioni tecnico-pratiche ma trattare anche tematiche di comunicazione ed empatia con il paziente, che rimane la persona che convive quotidianamente con la propria patologia e con quanto è necessario per combatterla.

Secondo lei, al termine – speriamo vicino – di questa emergenza quale insegnamento ci resterà dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria in tema, soprattutto, di prevenzione e cronicità?

Questo momento ha messo a fuoco diverse criticità del nostro Servizio Sanitario, in primis proprio l’inadeguatezza dei servizi territoriali. La politica che, come Paese, abbiamo perseguito negli ultimi anni mirava a una riduzione dell’offerta ospedaliera per potenziare quella territoriale, e ritengo che questa fosse una strada assolutamente corretta per soddisfare le necessità dei pazienti cronici, ma anche in termini di gestione economica del bene pubblico. Questa organizzazione però può funzionare soltanto se entrambi i poli, ospedaliero e territoriale, funzionano in maniera efficiente, altrimenti i pazienti fragili potrebbero ritrovarsi a gestire un vuoto di assistenza, poiché le strutture ospedaliere non sono più in grado di rispondere alle esigenze attuali dei pazienti, di cui purtroppo l’organizzazione territoriale non ha saputo farsi carico.

E diventa poi assolutamente prioritaria la comunicazione e la collaborazione tra tutti gli attori del sistema, soprattutto clinici. Si tratta di un tema che ritengo debba essere affrontato sin dalla prima formazione dei nostri medici ed operatori sanitari, e pertanto essere trattato già durante i corsi universitari.

I Medici di Medicina Generale, che dovrebbero essere sicuramente un punto di riferimento per il paziente sul territorio, riescono a sopperire alle esigenze dei loro assistiti ma soltanto fino a un certo punto: sulle malattie croniche più comuni e diffuse, come ipertensione e diabete, sono sicuramente preparati e hanno a disposizione procedure ormai consolidate che mettono in pratica in maniera generalmente efficace. Quando invece si confrontano con malattie croniche “atipiche”, si trovano maggiormente in difficoltà e si affidano allo specialista, poiché sono sprovvisti degli strumenti che sarebbero loro necessari per trattare sul territorio le esigenze specifiche dei pazienti che presentano patologie meno diffuse. Il tema di migliorare la comunicazione e collaborazione tra medici risulta anche qui di fondamentale importanza, per trasferire le competenze dei centri di riferimento anche ai medici di medicina generale. Certo non è possibili fare generalizzazioni, poiché molti dei medici di famiglia si sono attivati personalmente per rispondere al meglio alle necessità dei loro assistiti più fragili, ma tale pratica non è ancora sufficientemente diffusa né adeguatamente istituzionalizzata.

FSM sostiene la ricerca a favore del paziente fragile: ritiene che oggi ci siano sufficienti sensibilità e consapevolezza sulla presa in carico del paziente fragile?

No, ritengo che ci sia ancora molto lavoro da fare nell’ambito dei pazienti che necessitano di nutrizione artificiale, a cominciare dai clinici che tuttora sottovalutano la figura del nutrizionista nel percorso clinico del paziente. Ciò causa, in alcune occasioni, ritardi nell’inizio della terapia nutrizionale, in alcuni casi con danni anche permanenti dovuti allo stato di malnutrizione conseguente. Inoltre, è anche molto ridotto il numero di medici specialisti in nutrizione, anche per delle sovrapposizioni con altre figure professionali, come i dietisti e biologi nutrizionisti, ma ciò si è tradotto in una scarsa cultura sui temi della nutrizione clinica, con esternalità chiaramente negative anche sui pazienti che dipendono da questo presidio.

Ritengo sia quindi necessario ripartire dalle necessità del paziente, che dovrebbero essere sempre il primo pensiero dei clinici, specializzati o meno in nutrizione.

A suo parere, chi dovrebbe essere il punto di riferimento di questi pazienti?

Credo molto nella formazione e riqualificazione del medico di medicina generale. Credo anche molto nella figura dell’infermiere case manager, con un’adeguata formazione e organizzazione. Queste due figure, insieme, sarebbero, a mio parere, in grado di soddisfare l’80% dei bisogni dei pazienti fragili. Il restante 20% rimane a carico dei centri di riferimento delle singole patologie. Ad oggi, purtroppo, la situazione è esattamente opposta, con i centri di riferimento che si fanno carico della maggior parte delle esigenze dei pazienti.