29
Mar
Intervista a Barbara Mangiacavalli, Presidente FNOPI
Qual è la Sua definizione di “paziente fragile” e quali bisogni ritiene siano tipici di questa classe di pazienti?
Il paziente fragile è un paziente che presenta funzionalità ridotta, declino progressivo dei meccanismi fisiologici, instabilità clinica. Ma la fragilità non caratterizza necessariamente gli anziani, anche se il fenomeno è prevalente nella fascia degli ultrasettantacinquenni dove si riscontrano problematiche come cronicità, comorbilità, compromissione funzionale, polifarmacoterapia e difficoltà di tipo sociosanitario. Una delle caratteristiche fondamentali della fragilità è che non si tratta di una situazione occasionale, ma continua, di una condizione irreversibile e spesso progressiva.
I bisogni di questi pazienti, tuttavia, non sono solo rispetto alla loro condizione di salute. Esiste infatti una fragilità biologica per la presenza di patologie organiche, difficoltà della deambulazione, riduzione dell’integrità sensoria, perdita di autonomia, una fragilità psicologica con depressione, stanchezza cronica, solitudine e una fragilità sociale per la mancanza di reti di supporto sociale, isolamento, esclusione sociale.
I bisogni di questi pazienti, quindi, sono molteplici e non possono limitarsi al solo supporto clinico.
È necessario attivare interventi e percorsi assistenziali per il loro sostegno, per ridurre l’incidenza di eventi morbosi. Il percorso assistenziale e le opzioni terapeutiche vanno predisposte con la persona stessa, identificando i rischi e benefici, anche in relazione alla qualità della vita, alle potenzialità assistenziali attuabili nel territorio e a domicilio e all’aspettativa di vita.
E il luogo di elezione per l’assistenza di questi soggetti è il territorio, anzi, direi proprio il domicilio e l’ambiente sociale in cui essi sono inseriti o comunque dovrebbero inserirsi.
A suo parere è un tema compreso a sufficienza dal Servizio Sanitario Nazionale e dalla macchina amministrativa nel suo complesso?
Visto il rapidissimo cambiamento epidemiologico e sociale di questi ultimi anni, sia per l’aumento esponenziale della popolazione anziana, sia anche per le situazioni di fragilità cui facevo prima cenno e che sono trasversali all’età, direi che il Servizio sanitario non è del tutto pronto ad affrontare ed assistere i bisogni di questi pazienti.
Non lo è perché è legato a una tradizione ancora ospedalocentrica che, pur adatta alle situazioni di acuzie ed eventualmente per la prima identificazione delle cause dei bisogni di salute, non può essere l’ideale per quell’assistenza continua di cui hanno bisogno i più fragili e non lo è assolutamente per il supporto agli altri tipi di fragilità che possono sommarsi o comunque interagire con quella classica della salute.
La macchina amministrativa non è in grado di mettere in moto i diversi livelli di intervento necessari a far fronte ai bisogni reali di questi pazienti e spesso è scomposta in uno o nell’altro intervento, non permettendo quella presa in carico d’insieme che deve invece caratterizzare la reale assistenza alle fragilità.
Quali sono le attuali criticità nella presa in carico del paziente fragile?
La prima è la difficoltosa identificazione della causa della fragilità, ma anche l’interazione di questa con le altre dimensioni che possono generare un peggioramento della situazione.
La seconda è l’assenza di percorsi specifici coordinati a livello di servizi e strutture che siano in grado di monitorare trasversalmente le varie esigenze e di indirizzare il paziente fragile verso ogni componete adeguata e rapportata con le altre in una sinergia multiprofessionale che rappresenta la chiave dell’assistenza per questo tipo di situazioni.
Nel nostro Paese, anche rispetto al resto d’Europa, c’è carenza dei supporti necessari a questo tipo di pazienti (RSA, strutture dedicate, informatizzazione, teleassistenza e così via), si dà preferenza al supporto economico piuttosto che alla fornitura diretta di servizi e comunque ci sono criticità nell’erogazione dei supporti finanziari che essendo limitati in valore provocano un utilizzo per servizi di bassa intensità erogati spesso da personale poco qualificato.
Abbiamo già accennato ai servizi domiciliari inadeguati e che invece andrebbero potenziati maggiormente perché è restando nel proprio ambiente domestico che la persona fragile, specie se anziana, continua a godere di una vita qualitativamente migliore.
Manca una vera integrazione fra assistenza di tipo sanitario e sociale, e, ad esempio, da un punto di vista sanitario ci sono poche strutture dedicate alla geriatria, nelle RSA ci sono pochi Nuclei specializzati nelle demenze e nelle varie forme di fragilità.
Infine, c’è scarsità di dati per un’informatizzazione che non decolla e c’è carenza di professionisti coinvolti, mostrando inoltre un’elevata differenziazione fra le varie Regioni per disponibilità e modalità di accesso ai servizi, loro qualità, intensità del supporto fornito.
Come si può superare la frammentarietà di presa in carico tipica dei percorsi di cura di questi pazienti, che si rivolgono a specialisti diversi senza un piano di cura condiviso?
Ci vorrebbe prima di tutto una rivisitazione complessiva dal punto di vista legislativo delle cure domiciliari, che dovrebbe rappresentare uno degli obiettivi appena successivi all’entrata in vigore delle misure emergenziali.
E ci vuole vera multi-professionalità.
Finora l’unica legge che ha previsto norme in questa materia è la 219/2017 ““Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” che “tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.
Ma un piano condiviso è necessario anche nelle normali cure domiciliari perché in sua assenza si crea disallineamento sia delle terapie che dell’assistenza e, soprattutto, il paziente resta necessariamente fuori delle singole scelte che lo riguardano però nel suo complesso.
Va promossa e valorizzata la relazione di cura e fiducia tra il paziente e chi lo assiste, tanto che nel Codice deontologico degli infermieri è scritto a chiare lettere che “il tempo di relazione è tempo di cura”.
È necessario promuovere il valore dell’informazione integrata e multiprofessionale, importante anche ai fini del consenso informato assicurandosi che l’interessato o la persona di riferimento, riceva informazioni sul suo stato di salute precise, complete e tempestive, condivise con l’equipe di cura, nel rispetto delle sue esigenze e con modalità culturalmente appropriate.
Il concetto di pianificazione condivisa delle cure presuppone la condivisione delle competenze e conoscenze tra sanitari e paziente stesso; questo processo valorizza l’incontro e l’integrazione di diverse competenze: quelle ‘scientifiche’ che medici, infermieri e l’intero team assistenziale possono mettere a disposizione delle persone e quelle “personali ed individuali” dei pazienti stessi che rispecchiano la loro storia di vita, i loro desideri, preferenze, obiettivi. Nella pianificazione condivisa delle cure, l’incontro di queste competenze fa sì che insieme ci si assuma la responsabilità di portare avanti il processo assistenziale equilibrando in modo equo la necessità di condividere le decisioni, l’impostazione degli obiettivi e la valutazione costante e progressiva dei risultati raggiunti quotidianamente con la persona e la famiglia.
Nella Sua esperienza, la continuità ospedale-territorio è stata attuata e in che modalità per questa tipologia di pazienti? Quale potrebbe essere il ruolo degli operatori sanitari nell’implementare questa continuità terapeutica?
La continuità ospedale-territorio è interrotta nel momento in cui fuori dell’ospedale non c’è una organizzazione in grado di assistere pienamente il paziente, così come l’assenza di un’adeguata organizzazione territoriale presuppone un utilizzo improprio delle strutture di ricovero e dei pronto soccorso.
Questo fatto è continuamente sotto gli occhi di tutti e non ci vuole particolare esperienza per comprendere che all’assistenza “manca un pezzo”: il territorio.
In questo senso gli operatori sanitari hanno dimostrato la loro volontà di dare un reale supporto ai bisogni sanitari dei cittadini e dei fragili. In particolare, per quanto riguarda gli infermieri, specie durante la pandemia, non hanno mai lasciato solo nessuno, sia esso Covid, sia non-Covid, fragile, appunto, perché non mancasse mai quel supporto clinico e organizzativo in grado spesso di assicurare non solo qualità della vita, ma anche la tutela della salute a questa necessaria, anche e soprattutto in presenza di co-morbidità.
L’ospedale di comunità nasce proprio per questo, come anello di congiunzione tra l’ospedale propriamente detto e il territorio, dove poi si devono articolare tutti i servizi a cui facevo riferimento prima.
E l’ospedale di comunità è un modello a prevalente gestione infermieristica che se applicato sul territorio anche per altri meccanismi assistenziali (come ad esempio l’infermiere di famiglia e di comunità che è stato scelto anche dal recente decreto Rilancio come primo attore dell’assistenza di prossimità) non solo rende più immediata la risposta ai bisogni di salute dei pazienti, ma è in grado anche di essere finalmente filtro e meccanismo di continuità tra territorio e ospedale che consentono cure sempre appropriate e accorciano sensibilmente anche le liste di attesa.
In questo modo la funzione dell’infermiere case manager nulla toglie alle responsabilità cliniche dei medici e anzi sarà proprio l’infermiere in caso di necessità ad attivare il responsabile clinico della struttura, garantendo la multi-professionalità e l’integrazione necessaria a evitare la frammentazione delle cure e dell’assistenza.
Ci può essere una collaborazione tra pubblico e privato nell’offerta assistenziale per questo tipo di pazienti?
Direi che già c’è, considerando che, secondo l’ultimo annuario del SSN pubblicato dal ministero della Salute, nel settore dell’assistenza territoriale residenziale ad esempio, le strutture pubbliche si sono ridotte di 159 unità, mentre quelle private sono aumentate di 837; per l’assistenza territoriale semiresidenziale si registra -30 nel pubblico e +289 nel privato; per l’altra assistenza territoriale -87 pubbliche e +6 private; per l’assistenza riabilitativa +9 pubbliche e + 69 private.
In sostanza il pubblico ha perso il 5,2% di strutture e il privato ne ha guadagnato il 7,2%. In valori assoluti il pubblico conta in tutto 11.403 strutture sanitarie e il privato 15.808.
Una sinergia in atto che per essere virtuosa deve garantire da una parte una efficace ed efficiente governance pubblica dell’offerta assistenziale (pubblica e privata) e una funzione del privato negli ambiti che dove l’offerta pubblica (pura) fa più fatica a garantire, senza duplicazioni o spreco di risorse preziose.
Quello che è importante però è che l’offerta assistenziale erogata sia in grado di soddisfare le esigenze reali dei pazienti fragili, il mantenimento dell’universalità e dell’equità dell’assistenza perché non ci siano mai pazienti diversi da altri, situazioni in cui l’offerta sia maggiore in questa o quella Regione, cure erogate in modo difforme anche tra strutture della stessa Regione, magari per questioni di organizzazione di personale o di presidi.